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BIANTE
BIANTE - Uno dei sette Savi della
Grecia, nacque a Priene, città della
Caria, e fiorì nel 566 avanti l'Era Volgare.
La sua reputazione fu assai grande e come ottimo cittadino e
come profondo filosofo; fu stimato il più eloquente oratore
del suo tempo, e tutti i suoi talenti furono impiegati nel
difendere i poveri e gli afflitti. Sopra queste due classi
ancora egli profuse le sue ricchezze, poiché in quanto a sé
si contentò sempre del solo necessario. Non intraprese mai
una causa che egli non avesse già riconosciuta per giusta;
per cui era nato il proverbio "è una causa che si
addosserebbe Biante" quando voleva caratterizzarsi per
giusta ed eccellente.
Egli si dilettò molto della poesia; i suoi precetti di
morale, e le sue istruzioni politiche e guerriere furono
scritte in versi, i quali secondo alcuni autori, furono
oltre duemila; ecco alcune delle sue massime:
" Procurate piacere a tutti: se voi vi riuscirete, troverete
grandi soddisfazioni nel corso della vita. Il fasto ed il
disprezzo che si mostra per gli altri non ha prodotto mai
nulla di buono. Amate i vostri amici con discrezione;
pensate che possono diventare vostri nemici. Odiate i vostri
nemici con moderazione; perché può darsi che un giorno
divengano vostri amici.
" Scegliete con precauzione le persone che volete per amici;
abbiate per essi un'eguale affetto, ma distinguete il loro
merito. Imitate coloro la cui scelta vi fa onore, e siate
persuasi che la virtù dei vostri amici contribuirà non poco
alla vostra reputazione. Non siate solleciti a parlare,
poiché dareste segni di pazzia. Procurate, mentre siete
giovani, di acquistare della sapienza; sarà questa l'unica
vostra consolazione nella vecchiaia: voi non potete fare un
migliore acquisto e questa è l'unica cosa il cui possesso
sia certo, e che nessuno potrà rapirvi.
"La collera
e la precipitazione sono due cose opposte alla prudenza. Gli
uomini probi sono assai rari, i cattivi e i pazzi sono
infiniti. Non mancate mai di adempiere quanto avete
promesso. Parlate degli Dei in modo convenevole alla loro
grandezza, e rendete loro grazie di tutte le buone azioni
che farete. Non siate importuni; è meglio che siate
obbligati a ricevere, che obbligare gli altri a darvi. Non
intraprendete nulla inconsideratamente; ma quando avrete
determinato di fare qualcosa, eseguitela con calore. Vivete
sempre come se foste all'ultimo istante dei vostri giorni,
e, insieme, come se doveste rimanere lungo tempo in vita. La
buona salute è un dono della natura; le ricchezze
generalmente sono effetto della sorte; ma la sapienza è la
sola cosa che possa rendere un uomo utile.
La saggezza di Biante fu sempre conosciuta nei suoi discorsì,
nei suoi scritti e nelle sue determinazioni. Egli era solito
dire che preferiva giudicare una questione fra due suoi
nemici, piuttosto che fra due suoi amici; ed eccone la
ragione: nel primo caso, diceva egli, posso riconciliarmi
con quello dei due miei nemici al quale la decisione sarà
stata favorevole; nel secondo caso, posso perdere l'amicizia
di quel mio amico al quale ho dovuto dar torto.
A questo proposito vien riferito, che un giorno si trovò
obbligato a giudicare uno dei suoi amici al delitto del
quale la legge infliggeva la pena di morte. Prima di
proferire la sentenza si mise a piangere davanti a tutto il
Senato: perché piangete voi? gli disse qualcuno; non dipende
forse da voi il condannare o l'assolvere il colpevole?
Piango, replicò Biante, perché la natura mi obbliga ad avere
compassione degl'infelici; e piango perché la legge mi
obbliga a non aver riguardo ai moti della natura.
Le ricchezze, da Biante non erano annoverate nel numero dei
veri beni; egli le reputava superflue, e di cui si poteva
fare a meno. Si trovò in Priene, luogo, come già abbiamo
osservato, della sua nascita, nel tempo che questa
disgraziata città fu presa e saccheggiata; tutti i cittadini
portavan via tutto ciò che potevano, e fuggivano nei luoghi
creduti più sicuri. Il solo Biante stava immobile, e
sembrava guardare con indifferenza il disastro che in quel
momento soffriva la sua diletta patria. Qualche suo
concittadino si permise di domandargli perché ancor egli non
pensava a salvare qualche cosa, come facevano gli altri. Ma
io lo sto facendo, rispose Biante, poiché tutto quello che
ho io porto meco, "omnia bona mea mecum porto".
L'azione che determinò la fine dei giorni di Biante non è
meno illustre del rimanente della sua vita. Si era egli
fatto portare nel Senato ove, con molto zelo, difendeva
l'interesse di uno dei suoi amici; il calore della disputa
aggiunse stanchezza all'età sua già veneranda per cui egli
appoggiò la testa sul petto di un figlio della sua figlia
che ivi lo aveva accompagnato. Quando l'oratore del suo
avversario ebbe terminato il suo discorso, i giudici si
pronunziarono in favore di Biante che spirò in quell'istante
tra le braccia di suo nipote. Tutta la città gli fece dei
magnifici funerali, e dimostrò uno straordinario rammarico
per la sua morte: gli fu eretta una decorosa tomba sulla
quale furono scolpite le seguenti parole: "Priene è stata la
patria di Biante, che fu la gloria di tutta la Jonia, e che
ha avuto dei pensieri più elevati di tutti gli altri
filosofi." La sua memoria fu in si gran venerazione, che gli
fu dedicato un tempio nel quale i Prienesi gli rendevano
onori straordinari.
ch
CHILONE
CHILONE - Molti uomini dotti della
Grecia credettero, e con ragione, che il viaggiare potesse
contribuire all'acquisto delle cognizioni, ed essi stessi si
uniformarono a tale credenza. Chilone, uno dei sette Savi,
la pensava diversamente, poiché secondo lui il tempo peggio
impiegato era appunto quello speso nei viaggi. D'altronde fu
ammirato per il genere ritiratissimo di vita che osservava,
per la sua moderazione, e particolarmente per il silenzio
dal quale rare volte si dispensava.
Egli è l'autore di quella massima secondo la quale "in
ogni cosa bisogna correre lentamente" e su questa egli
regolava la sua vita. Per giudizio unanime degli antichi
scrittori la sua vita era un modello di virtù. Ma fra le
virtù si includeva anche la superstizione. Egli, per esempio
stimava che l'arte di indovinare non era impossibile
all'uomo, il cui spirito, secondo la filosofia, poteva
conoscere molte cose future. Si dice che una volta, dopo
aver esattamente esaminata la qualità del terreno e la
situazione dell'isola di Citera, esclamsse alla presenza di
tutti: "Ah! Piacesse agli Dei che quest'isola non fosse
mai esistita, o che il mare l'avesse sommersa sino da quando
comparve; perciocché io prevedo che ella sarà la rovina del
popolo di Lacedemone". Egli non s'ingannò; quell'isola
fu presa qualche tempo dopo dagli Ateniesi, che la
sottrassero a Sparta.
Ecco alcune
delle sue massime che pronunziava perché fossero osservate:
"Tre sono le cose difficili; custodire il segreto, soffrire
le ingiurie, ed impiegare bene il tempo. Non bisogna mai
minacciar chicchessia, perché è una debolezza da donna. La
maggior sapienza è saper frenare la lingua nei banchetti.
Non si deve mai sparlare di nessuno; altrimenti siamo
esposti a farci dei nemici e ad ascoltare cose spiacevoli.
Conviene visitare gli amici più nel tempo in cui si trovano
in disgrazia, che quando vivono nella felicità. E' meglio
perdere che fare un guadagno ingiusto. E' cosa disdicevole
il lusingare le persone che sono nell'avversità.
" Un uomo coraggioso deve sempre dimostrarsi affabile, e
farsi piuttosto rispettare che temere. Colla pietra di
paragone si prova l'oro e l'argento; e coll'oro e l'argento
si prova il cuore degli uomini. Bisogna usare ogni cosa con
moderazione, perché poi la privazione non ci sia troppo
dolorosa. L'amore e l'odio non durano eternamente. Non
bisogna desiderare le cose che sono troppo al disopra di
noi; colui che garantisce un altro perderà sempre".
Quest'ultima sentenza sembrò a Chilone di tale importanza
che la fece scolpire a lettere d'oro nel tempio di Apollo a
Delfo. Chilone, sentendosi approssimare la morte, guardò i
suoi amici radunati intorno a lui, e così loro parlò: miei
amici, voi sapete che io ho detto e fatto tante cose durante
i miei molti anni di vita; io ho ponderatamente esaminato
ogni mia azione, e non trovo che abbia mai fatta cosa in cui
mi possa pentire, se non, forse, in quell'unico caso che ora
vado ad esporvi e che io sottopongo alla vostra decisione
per sapere se ho bene o male agito. Mi sono trovato un
giorno a giudicare uno dei miei buoni amici, che secondo le
leggi, doveva essere punito di morte; io mi trovavo molto
imbarazzato, poiché bisognava o violare la legge o far
morire l'amico: Dopo avervi ben riflettuto trovai questo
espediente: esposi con tanta accortezza tutte le migliori
ragioni dell'accusato, che i miei colleghi non fecero ebbero
difficoltà ad assolverlo, ed io lo avevo condannato a morte
senza loro dir nulla. Ho soddisfatto ai doveri di giudice e
di amico; nulladimeno sento qualche cosa nella mia coscienza
che mi fa dubitare se il mio consiglio non fosse
condannabile. Chilone, infine, sommamente stimato ma
oppresso dalla vecchiezza morì a Pisa (città greca) per un
eccesso di gioia fra le braccia del suo figlio che veniva
allora coronato per aver vinto nei giochi olimpici, 597 anni
avanti l'ora volgare. Dopo la sua morte, i Lacedemoni gli
eressero una statua.
cl
CLEOBULO
CLEOBULO - La patria di Cleobulo fu
Lindo, città marittima dell'isola di Rodi. La natura lo
aveva dotato di un aspetto molto avvenente e di una presenza
assai nobile. Fu universalmente riconosciuto come uno dei
setti Savi della Grecia, ma il meno importante, poiché tutta
la sua sapienza si limitò a dare alcune massime per ben
vivere. Eccone alcune:
" In ogni cosa bisogna avere ordine, tempo e misura. Non vi
è nulla al mondo di più comune che l'ignoranza e i parolai.
Conviene nutrir sempre sentimenti elevati, e non essere né
ingrato né infedele. Prima di uscire di casa convien pensare
a ciò che si va a fare; quando si rientra bisogna esaminare
tutto ciò che si è fatto. Il parlar poco e l'ascoltar molto
è una buona regola. Si deve consigliare sempre ciò che la
riflessione ci ha persuaso essere la cosa più ragionevole.
E' necessario non abbandonarsi ai piaceri.
La buona educazione dei figlioli è cosa indispensabile.
Quando la fortuna è favorevole non conviene insuperbirsi, né
lasciarsi opprimere quando ci volta le spalle. L'uomo deve
scegliere una sposa della sua condizione; se è una di
nascita più ricca e distinta della sua, egli avrà una
padrona e altrettanti padroni quanti ne ha essa.
Un uomo non deve mai lodare né rimproverare la sua moglie in
presenza di altri: nel primo caso vi è della debolezza; nel
secondo della pazzia".
Cleobulo impiegò la sua gioventù a viaggiare nell'Egitto ove
apprese la filosofia, secondo l'uso di quei tempi. Al suo
ritorno si ammogliò con una fanciulla virtuosissima. Da
questa unione nacque la celebre Cleobulina, che per la sua
applicazione allo studio e per gli eccellenti insegnamenti
di suo padre divenne così sapiente da imbarazzare i più
abili filosofi di quei tempi, specialmente con gli enigmi.
Cleobulo acquistò gran reputazione per la facilità con la
quale proponeva e scioglieva gli enigmi.
Egli introdusse nella Grecia l'uso degli enigmi che aveva
imparati in Egitto; è fra altri l'autore del seguente: "sono
un padre che ha dodici figliuoli, ciascuno dei quali ha
trenta figlie, ma di differente bellezza. Le une hanno la
faccia bianca, le altre le hanno assai nera. Esse sono tutte
immortali ma mi muoiono tutti i giorni".
La soluzione è: l'anno. Cleobulo seppe prudentemente trarre
profitto da ogni sorta di vantaggi in una condizione
mediocre ed in una vita aliena dalle cure del mondo.
Buon marito, fortunato padre, fu inoltrre un cittadino molto
stimato. Egli morì in età di settanta anni, 564 avanti l'
era volgare. I Lindiani, dispiaciuti di averlo perduto, gli
elevarono un magnifico sepolcro con un epitaffio, per
onorare eternamente la sua memoria.
pi
PITTACO
PITTACO - Nacque a Mitilene, città
dell'isola di Lesbo, e fu anche lui acclamato come uno dei
sette Savi della Grecia. Nella sua gioventù fu molto
coraggioso, bravo soldato, gran capitano e sempre buon
cittadino. Riteneva per massima che bisognava adattarsi ai
tempi e approfittare delle occasioni.
La sua prima impresa fu di far lega con il fratello di Alceo
contro il tiranno Melancro che, avendo usurpato il sovrano
potere dell'isola di Lesbo, fu da Pittaco sconfitto. Questo
successo gli diede grande reputazione d'intrepidità. C'era
da molto tempo una crudele guerra tra gli abitanti di
Mitilene e gli Ateniesi per il possedimento di un
territorio: l'Achillitide. I Mitilenesi scelsero Pittaco
come comandante delle loro truppe. Quando le due armate
furono l'una di fronte all'altra pronte a dar battaglia,
Pittaco propose di terminare le ostilità con un
combattimento particolare: chiamò a duello Trinone, generale
degli Ateniesi che era sempre uscito vittorioso da ogni
sorta di combattimento e che era stato più volte coronato ai
giochi olimpici. Trinone accettò la sfida. Si decise che il
vincitore serebbe rimasto, senza contrasti, unico
conquistatore del territorio in questione. I due contendenti
avanzarono soli in mezzo alle due armate; Pittaco aveva
nascosto sotto il suo scudo una rete e si valse tanto
destramente dell'occasione che inviluppò Trinone nel momento
in cui non si dubitava più di nulla, e gridò "non ho preso
un uomo, è un pesce." Pittaco lo uccise alla presenza delle
due armate e restò così padrone del territorio.
L'età poi cominciò a moderare gradatamente l'ardore
straordinario di Pittaco, che iniziò quindi a gustare la
dolcezza della filosofia. I Mitilenesi, che nutrivano per
lui un rispetto particolare, gli diedero il principato della
loro città. Una lunga e faticosa esperienza gli fece
riguardare con intrepida fermezza i diversi aspetti della
fortuna. Dopo aver stabilito il miglior ordine nella
Repubblica, rinunciò volontariamente al principato che da
dieci anni teneva, e abbandonò gli affari pubblici per
ritirarsi a vita privata.
Pittaco dimostrò gran disprezzo per i beni di fortuna, dopo
averli un tempo desiderati. I Mitilenesi, per compensare i
grandi servigi che a loro aveva resi, gli offrirono un luogo
ameno, circondato di boschi e di vigne e attraversato da
diversi ruscelli, oltre ai molti poderi le cui rendite
sarebbero bastate a farlo vivere splendidamente nel suo
ritiro. Visitò dunque il lugo prescelto per il dono e gli
parve eccessivo e anche troppo impegnativo. Egli quindi
prese il suo dardo e, lanciatolo a tutta forza, disse che si
contentava dello spazio segnato dal punto in cui era giunto
il suo dardo. I magistrati meravigliati della sua
moderazione lo pregarono che ne dicesse il motivo; la
risposta fu "Una parte è più vantaggiosa del tutto".
Quella grande avrebbe solo angosciato i suoi giorni.
Pittaco era di figura molto deforme: aveva sempre male agli
occhi, era grasso, molto trascurato nella persona e
camminava male per le infermità che aveva ai piedi. La sua
consorte era figlia del legislatore Dracone; questa donna
era di un'alterigia e di un'insolenza insopportabile,
disprezzava il marito a cagione delle sue deformità e della
sua inferiore condizione sociale.
Un giorno Pittaco aveva invitato a pranzo molti filosofi
suoi amici; quando tutto fu pronto, sua moglie, che era
sempre di cattivo umore, andò a rovesciare la tavola e tutti
i cibi che vi erano sopra. Pittaco, senza alterarsi, si
contentò di dire ai convitati "è una pazza, bisogna
scusare la sua debolezza". Questa gran disunione che
aveva sempre regnato tra lui e sua moglie, gli aveva fatto
concepire molta avversione per i matrimoni male assortiti.
Un giorno un uomo gli domandò quale tra due donne dovesse
prendere per moglie, osservando che una di esse era di
condizione quasi uguale alla sua e l'altra assai superiore
sia per le ricchezze che per la nascita. Pittaco, alzando il
bastone al quale era appoggiato gli indicò un gruppo di
fanciulli che si disponevano a giocare, e gli disse "va'
da loro e segui il consiglio che ti daranno".
Il giovane ubbidì e, ascoltando ciò che dicevano i ragazzi,
intese che questi, prima di iniziare una gara, cercavano di
assortirsi per non essere né troppo deboli né troppo forti e
reciprocamente ripetevano "scegli il tuo uguale".
Ciò lo convinse a non pensar più alla donna ricca e nobile e
a sposare invece quella di condizione quasi uguale alla sua.
Pittaco fu assai sobrio, egli beveva quasi sempre
dell'acqua, quantunque Mitilene fosse ricca di vini
eccellenti. I titoli delle sue opere sono stati conservati
da Laerzio, che enumerò alcuni versi elegiaci, diverse leggi
in prosa scritte per i suoi concittadini, delle Epistole e
dei precetti morali, conosciuti col nome di 'adòmena' (cose
dilettevoli). Egli morì all'età di 82 anni nel 570 circa
avanti l'era volgare.
s
SOLONE
SOLONE - Quanto è stato detto in più
momenti della storia intorno a Solone non è sufficiente per
dare ai nostri lettori un quadro completo di tutto ciò che
lo riguarda e che ci hanno tramandato i più accreditati
antichi scrittori. Questo illustre sapiente della Grecia e
benemerito Legislatore della sua patria è ben degno di esser
conosciuto particolarmente. Solone è celebrato soprattutto
come il fondatore della democrazia attica. Proibi la
schiavitù per debiti (cosa molto comune) abolendo perfino i
contratti stipulati prima della sua riforma. Fu lui a
istituire, in aggiunta all'Aeropago, il consiglio popolare
formato da quattrocento membri. Solone nacque in Salamina e
fu educato in Atene e, per assersione di Filocle, fu figlio
di Euforione, contro l'opinione di quanti altri scrivono su
Solone.
Molti asseriscono invece che egli fu figliuolo di Esecestide,
il quale, essendo originario di Codro, fu più di ogni altro
nella sua città indicato come il più nobile e riverito
cittadino.
La madre di Solone fu cugina di quella di Pisistrato, e per
questo Solone amò costui come un fratello.
Avendo il padre, per essere stato troppo generoso, consumato
tutto il patrimonio, Solone fu obbligato a diventare
mercante, benché lo facesse solo per fare esperienza di
molte cose nella vita, più che per arricchire; ed essendosi
dato poi alla filosofia, soleva dire nella sua età avanzata
che egli invecchiava imparando sempre cose nuove.
Solone, dopo aver compiuti i suoi studi filosofici e
politici, viaggiò per la Grecia e specialmente in Egitto,
divenuto in quel tempo il luogo più visitato da tutti i
sapienti. Col suo studio, con le sue meditazioni e con la
sua esperienza egli divenne eccellente oratore, poeta,
legislatore ed anche buon guerriero. Come Talete, non si
pose mai sotto alcun maestro. Egli è autore di quella bella
e assai conosciuta massima: "Bisogna stare sul mediocre in
ogni cosa".
Un giorno Solone si trovava a Mileto, ove la gran
reputazione di Talete lo aveva indotto a recarsi. Dopo
essersi trattenuto per qualche tempo con questo filosofo,
gli disse: Io mi meraviglio, o Talete, che tu non abbia mai
voluto ammogliarti; ora avresti dei fanciulli che
prenderesti piacere ad educare. Talete non diede alcuna
risposta sul momento. Alcuni giorni dopo incaricò un uomo di
fingere di essere straniero e di venire a trovarli.
Quest'uomo disse che veniva da Atene in quell'istante.
Ebbene, gli disse Solone, che cosa c'è di nuovo colà? Nulla,
che io sappia, rispose lo straniero, ma è andato alla tomba
un giovane ateniese, la cui pompa funebre era accompagnata
da tutta la città a motivo della sua nascita distinta e
della reputazione di cui gode presso il popolo il padre di
lui: quest'uomo, soggiunse il forestiero, è già da qualche
tempo assente da Atene; i suoi amici hanno intenzione di
dargliene la notizia con molto tatto per timore che il
dolore non lo faccia morire.
"Oh
sventurato padre! Esclamò Solone. E come si chiama? L'ho ben
inteso nominare, rispose lo straniero ma non me ne ricordo;
ma dicevano che fosse un uomo di una profonda sapienza.
Solone, la cui inquitudine aumentava ad ogni istante, parve
turbato; non poté trattenersi dal domandare se mai fosse
costui Solone. Lo straniero rispose subito: sì, è proprio
questo il suo nome. Solone fu preso da un'emozione così
forte, che cominciò a lacerarsi gli abiti, a strapparsi i
capelli e a percuotersi il capo; infine si abbandonò a
quanto sogliono fare e dire le persone che sono oppresse da
un eccessivo dolore.
Perché piangere ed inquietarsi tanto, gli disse Talete, per
una perdita che non può essere riparata da tutte le lacrime
del mondo? Ahimé! rispose Solone, questo per l'appunto è
quello che mi fa piangere; piango un male che non ha
rimedio. Alla fine Talete si mise a ridere dei diversi
atteggiamenti di Solone: O Solone, mio amico, gli disse,
ecco ciò che mi ha fatto temere il matrimonio; ne temevo il
giogo, e conosco dal dolore del più saggio degli uomini, che
il cuore, anche il più fermo non può sostenere le afflizioni
che nascono dall'amore e dalla cura dei fanciulli. Non ti
inquietare; tutto ciò che è stato detto non è che una favola
inventata da noi".
Vi era stata per molto tempo tra Ateniesi e quelli di Megara
una accesa disputa per contendersi l'Isola di Salamina.
Finalmente dopo molte stragi da ambe le parti, gli Ateniesi
che erano stati i perdenti dell'ultimo scontro, stanchi
ormai di sparger sangue, ordinarono una punizione di morte
contro il primo che osasse proporre la guerra per
riconquistare Salamina, caduta in possesso dei Megaresi.
Solone, non potendo sopportare una tale infamia, e vedendo
che molti giovani ardevano di zelo guerriero per una tale
impresa, ma che non ardivano dichiararlo per timore della
legge, si finse privo di senno, e per la città già si era
propagata la notizia che egli fosse impazzito.
Intanto, avendo egli stesso segretamente composti ed
imparati a memoria dei versi elegiaci, si presentò nella
pubblica piazza vestito di un abito lacero, con la corda al
collo e con una berretta sudicia e logora sulla testa. Poi,
montato sulla pietra del banditore, recitò, cantando i detti
versi al popolo che era accorso in gran folla.
" Piacesse agli Dei, esclamò egli, che Atene non fosse mai
stata mia patria; ah! io vorrei essere nato a Toleganda o a
Sicina od in qualunque altro luogo più orribile, più barbaro
e infame di questo; almeno non avrei il dolore di vedermi
sulla strada mostrare a dito, dicendo: ecco un ateniese che
si è vergognosamente salvato a Salamina. Vendichiamo tosto
il ricevuto affronto, e riprendiamoci quello che tanto
ingiustamente i nostri nemici ci hanno preso.
Queste parole fecero sì forte impressione sull'animo degli
Ateniesi, che essi revocarono l'editto che avevano fatto;
ripresero le armi, mossero guerra ai Megaresi, e l'isola di
Salamina fu riconquistata e poi nuovamente perduta per le
discordie cagionate ad Atene dagli opposti partiti di Cilone
e Megacle, di cui seppero approfittare i Megaresi.
Il senno di Solone seppe anche portare rimedio ai mali da
cui era afflitta la patria per tali divisioni, e li
ricondusse alla calma, facendo esiliare da Atene il partito
di Megacle, un disturbatore della quiete pubblica. Solone
divise i cittadini in quattro diverse classi censuarie,
secondo i beni che ciascuno in particolare allora possedeva.
Permise che tutto il popolo potesse prender parte negli
affari pubblici, eccettuati i soli artigiani che non
potevano avere, secondo lui, sufficiente interesse per la
patria, impegnati com'erano solo a guadagnare. Questi erano
esclusi quindi dalle cariche e non godevano i medesimi
privilegi degli altri del diritto elettorale.
Ordinò poi che i principali magistrati fossero sempre scelti
fra i cittadini del primo ordine; che in una sedizione,
colui che non avesse preso alcun partito fosse macchiato di
infamia (desiderava la partecipazione attiva di tutti, per
il buon governo); che se un uomo avesse sposata una donna di
distinzione senza averne ottenuta prole, ella potesse
separarsi dal consorzio del matrimonio; che le mogli
portassero in dote ai loro consorti almeno tre vesti e
alcuni necessari mobili anche di poco valore; che si poteva
uccidere impunemente un adultero quando veniva sorpreso sul
fatto: moderò il lusso delle donne ed abolì molte cerimonie
che esse solevano osservare; proibì di dir male dei morti;
permise a coloro che non avevano figli di nominare gli eredi
che volevano, purché non fossero fuori di senno al momento
del testamento; ed infine fece altri regolamenti di simile
natura, che furono riconosciuti tutti ottimi per il buon
governo della patria, e così validi che furono incisi su
tavole.
La fama di Solone si era sparsa dappertutto. Creso, re di
Lidia, lo chiamò a sé, ed egli ubbidì. Traversando la Lidia
incontrava una gran quantità di signori con la loro corte,
che spesso scambiava per il re medesimo. Finalmente si
presentò a Creso che lo aspettava assiso sul suo trono, e
che si era espressamente ornato di quanto aveva di più
prezioso. Solone non parve meravigliato di tanta
magnificenza. Creso gli disse: mio ospite, conosco la tua
sapienza per fama: so che tu hai viaggiato molto; dimmi,
vedesti tu mai persona più magnificamente vestita di me? Si,
rispose Solone, i fagiani, i galli e i pavoni hanno qualcosa
di più magnifico, poiché quanto hanno di splendido viene
loro dalla natura, senza che si diano alcuna cura per
adornarsi.
Una risposta così inaspettata sorprese Creso ma non
l'avvilì; comandò ai suoi subalterni di mostrare a Solone
tutti i suoi tesori, le sue preziose supellettili, ed infine
tutti gli oggetti della sua già rinomata magnificenza e
ricchezza: poi, fatto venire nuovamente Solone avanti di sé,
gli disse: hai mai veduto un uomo più felice di me? Sì, gli
rispose Solone, ho veduto Tello, cittadino di Atene, che
visse da uomo dabbene, lasciò due figli molto stimati, con
una sostanza proporzionata alla loro sussistenza, ed infine
ebbe la felicità di morire con le armi in mano, riportando
una vittoria per la sua patria. Gli Ateniesi gli hanno
eretto una tomba nel luogo medesimo ove perdette la vita, e
gli hanno reso dei grandi onori più che a un re.
Dopo dieci anni di assenza, Solone ritornò in Atene ove con
gran dolore trovò i suoi concittadini agitati da discordie
intestine, e la più gran parte delle sue leggi messe fuori
d'uso. Con uguale amarezza osservò l'usurpazione che aveva
fatto Pisistrato del supremo potere nella sua patria; perciò
non potendo egli rimanere più a lungo spettatore di tanti
disastri, si ritirò nell'isola di Cipro ove morì in età di
80 anni, nel 558 avanti l'era volgare.
Solone non fu nemico dei piaceri durante la sua vita. Amava
i lauti conviti, la musica, e quanto può rendere la vita
voluttuosa. Solamente aveva in odio quelle rappresentazioni
teatrali nelle quali si annunziavano delle cose inventate a
piacere; parlando di Tespi, che organizzava tali cose, si
espresse in questo modo, con i suoi concittadini per
dissuaderli di assistere alle rappresentazioni di questo
autore del tragico così tanto riverito: "Se noi onoriamo e
applaudiamo negli spettacoli la menzogna, la troveremo anche
nelle nostre promesse più sacre". Fu osservato che nel suo
codice non aveva parlato di parricidio; interrogato perché
lo avesse omesso, egli rispose "perché non ho creduto
potervi essere delle persone tanto scellerate da uccidere il
loro padre e la loro madre".
Fra le sue massime ricordiamo la seguente: "Un uomo di 70
anni non deve temere più la morte, né deve più lagnarsi
delle sciagure della vita".
pe
PERIANDRO
PERIANDRO - Periandro si rese celebre
per la sua tirannia. Pare quasi impossibile che un uomo il
quale dava delle massime eccellenti di morale, dovesse poi
condurre una vita viziosissima; e sembra egualmente
incredibile che i Greci, testimoni della sua condotta,
abbiano potuto onorarlo col nome di Sapiente.
PERIANDRO discendeva dalla famiglia degli Eraclidi; nacque
in Corinto e divenne tiranno della sua patria. Prese in
sposa LISIDE, figlia del principe di Epidauro. Dimostrò
sempre molto amore per essa, e cambiò il suo nome di Lidide,
in quello di MELISSA; da questo matrimonio ebbe due figli.
Cipsele, il primogenito era tardo di ingegno e sembrava
quasi stupido; ma Licofroone, il minore, era di ingegno
elevato ed assai atto al governo del regno. Trovandosi
Melissa incinta, alcune donne che vi avevano interesse,
procurarono di dare ombra della condotta di lei a Periandro,
e gli fecero dei rapporti che lo indussero nella più furiosa
gelosia, in una lite, nell'atto ch'ella scendeva una scala,
con un calcio che le diede nel ventre la rovesciò; cosicché
precipitando dalla medesima restò morta con il figlio che
portava.
Egli si pentì subito di questa atrocità, ed abbandonandosi
alla più grande disperazione, sfogò il suo sdegno sulle
donne che gli avevano fatto nascere questi sospetti; le fece
prendere e bruciare vive.
PROCLEO, padre dell'estinta, essendo stato informato del
crudele trattamento fatto alla sua cara figliola, mandò a
cercare i suoi due nipoti che amava teneramente. Li tenne
presso di sé per qualche tempo onde consolarsi; ed
allorquando li rimandò, disse loro abbracciandoli: "Mie
figlioli, voi conoscete l'uccisore di vostra madre".
Il maggiore non pensò al significato di queste parole; ma il
cadetto ne fu sì vivamente commosso, che quando fu di
ritorno a Corinto non volle mai più parlare a suo padre, né
rispondere a ciò che esso gli domandava. Il padre fece molte
interrogazioni a Cipsele, per sapere ciò che gli aveva detto
Procleo; ma questi per la sua poco felice memoria aveva già
dimenticato ogni cosa, Periandro, lo sollecitò tanto che
finalmente Cipsele si ricordò delle ultime parole che aveva
intese da Procleo raccontandole al padre.
PERIANDRO ben comprese ciò che si era voluto dire ai suoi
figli. Procurò egli dunque di mettere l'altro suo figlio,
Licofroone, nella necessità di ricorrere a lui; proibì a
coloro che lo alloggiavano di non più tenerlo nella loro
casa. Licofroone vedendosi così perseguitato, si presentò in
molte altre case, ma dappertutto veniva cacciato per timore
delle minacce del padre: trovò alla fine alcuni amici che
ebbero compassione del suo stato, che lo ricevettero in casa
col pericolo di attirarsi l'indignazione del re. Periandro
fece pubblicare, che chiunque lo ricevesse o gli parlasse
solamente sarebbe stato punito di morte.
Il timore di un sì rigoroso castigo, spaventò tutti i
cittadini; nessuno osava parlargli o avere relazioni.
Licofroone passava le notti sotto i portici delle case;
tutti lo fuggivano, come se fosse una fiera. Quattro giorni
dopo Periandro che lo vide quasi morto di fame e di miseria,
fu commosso, gli si avvicinò e gli parlò in questi termini:
"Licofroone, quale sorte é più desiderabile; quella forse di
condurre una vita miserabile come fai tu, o quella di
disporre della mia possanza e di essere interamente il
padrone dei tesori che io posseggo? Tu sei mio figlio e
principe della florida città di Corinto; se é accaduto
qualche sinistro accidente, io ne ho dei risentimenti tanto
più vivi in quanto ne sono causa io medesimo. In quanto a te
poi, ti sei attirate tutte queste disgrazie irritando colui
che dovevi rispettare; ma ora che tu conosci cosa sia
l'ostinarsi contro il padre, ti permetto di ritornare in
casa mia".
Licofroone, insensibile come una rupe ai discorsi di suo
padre Periandro, gli rispose freddamente: "Voi medesimo
meritate la pena di cui avete minacciato gli altri, poichè
voi mi avete parlato". Quando Periandro vide che era
assolutamente impossibile vincere la fermezza di suo figlio,
prese il partito di allontanarlo dai suoi occhi, e lo rilegò
a Corcira che era un paese a lui soggetto. Periandro
irritato contro Procleo che credeva autore della disunione
tra lui e suo figlio, levò molte truppe alla testa delle
quali si pose egli medesimo per andare a fargli guerra.
Tutto le riuscì felicemente. Dopo essersi reso padrone della
città di Epidauro, lo fece prigioniero e lo custodì presso
di sè senza dargli morte.
PERIANDRO qualche tempo dopo quando cominciava già a divenir
vecchio, mandò a Corcira a cercare Licofroone per rinunziare
in suo favore il sovrano potere, a pregiudizio del
primogenito che non era atto alla condotta degli affari.
Ma Licofroone non volle dare risposta all'invito di
Periandro; questi, che amava teneramente suo figlio, non si
diede per vinto: diede ordine a sua figlia di andare a
Corcira, sperando nella sua influenza sullo spirito di suo
fratello. Dal momento che questa giovane principessa fu
giunta presso Licofroone, lo scongiurò cercando di
commuoverlo e vincere la sua ostinazione: "Volete, gli disse
, che il regno tocchi ad uno straniero piuttosto che a voi?
Nostro padre é vecchio e prossimo alla morte; se voi non
venite presto, la nostra casa perirà certamente. Pensate
dunque di non abbandonare ad altri le grandezze che vi
aspettano e che legittimamente vi appartengono. Licofroone
l'assicurò che finchè viveva il padre, egli non sarebbe
ritornato mai a Corinto.
Quando la
principessa tornò dal re, suo padre, gli narrò il rifiuto di
Licofroone. Periandro a Corcira inviò una terza ambasciata
per far sapere a suo figlio che egli poteva venire quando
voleva a prendere possesso di Corinto; e che in quanto a lui
aveva deciso di andare a terminare i suoi giorni a Corcira.
Licofroone vi acconsentì; si disposero ambedue a cambiar
paese. I Corciresi ne vennero avvertiti, e n'ebbero tanto
spavento che trucidarono Licofroone per timore che Periandro
andasse a dimorare fra di essi.
PERIANDRO disperato per la morte di suo figlio fece tosto
prendere trecento figliuoli delle migliori famiglie di
Corcira e li mandò ad Aliatte per farne degli eunuchi. Il
vascello che li trasportava fu costretto ad approdare a Samo.
Quando gli abitanti di questa città conobbero il motivo e il
destino che si dava a questi infelici n'ebbero la più gran
compassione; li consigliarono segretamente di ricoverarsi
nel tempio di Diana: quando vi furono entrati, non vollero
permettere ai Corinti di riprenderli, asserendo che i
fanciulli erano sotto la protezione della Dea. Trovarono poi
il mezzo di farli sussistere senza dichiararsi apertamente
nemici di Periandro: mandavano tutte le sere i loro giovani
a ballare vicino al tempio e questi ne approfittavano per
gettare dentro il tempio delle focacce. I giovani corciresi
le raccoglievano e se ne nutrivano.
PERIANDRO
adirato di non aver potuto vendicare la morte di suo figlio
come desiderava, determinò di non più vivere; ma siccome non
voleva che si sapesse ove fosse il suo corpo, immaginò
questa invenzione, per nasconderlo. Fece venire a sè due
giovani ai quali mostrò una strada abbandonata ed impose
loro di passeggiarvi nella notte seguente, di uccidere il
primo che vi incontrassero e seppellire al momento il corpo
del morto. Licenziò questi, e ne fece venire quattro altri,
ai quali comandò pure di passeggiare nella stessa strada e
di uccidere due giovani che avrebbero incontrato. Licenziati
pure questi, ne fece venire un maggior numero ai quali
impose egualmente di uccidere gli altri quattro e
seppellirli sul luogo. Dopo che egli ebbe così disposto ogni
cosa come desiderava non mancò di trovarsi all'ora
prescritta nel luogo remoto, ove fu ucciso dai primi due che
lo incontrarono.
Finito così tragicamente e in questo modo oscuro comunque i
Corinti gli eressero una tomba sulla quale incisero un
epitaffio per onorare la sua memoria. Egli morì in età di 80
anni, dopo aver regnato quarant'anni. Periandro non si rese
illustre senza dubbio per le sue azioni indegne di un uomo,
non chè di un sapiente; ma pure prescindendo da queste é
ammirabile per i suoi morali precetti che senza prendersi
molta pena di adempiervi egli stesso si contentava solamente
di insinuare ad altri: eccone alcuni. Non si deve mai
desiderare il denaro di ricompensa delle proprie azioni. Non
vi è cosa più apprezzabile della tranquillità. Quelli che
fanno del male meritano di essere puniti egualmente che
quelli dei quali è noto che sono disposti a farlo. I piaceri
sono passeggeri ma la gloria é eterna. Bisogna essere
moderato nella prosperità e prudente nelle avversità. Non si
deve giammai rivelare il segreto che ci é stato confidato.
Non conviene guardare se i nostri amici sono nella felicità
o nella infelicità; conviene per altro verso di loro i
medesimi riguardi in qualunque stato si trovano.
PERIANDRO amava i sapienti; scriveva agli altri filosofi
della Grecia per invitarli ad andare a passare qualche tempo
a Corinto, ove giunti faceva loro la più grande accoglienza.
La sua vita come abbiamo letto è invece una vera
contraddizione della sapienza degli altri 6 Savi. Ma la
Storia ne riserverà altre di personaggi simili.
t
TALETE
TALETE - Mileto nella Jonia fu la
patria di Talete, uno dei sette Savi della Grecia. Dapprima
egli si occupò nella magistratura, e dopo averne coperti con
splendore i principali impieghi, decise di abbandonare ogni
pubblico affare per dedicarsi allo studio. Come molti suoi
dotti predecessori, viaggiò per acquistare cognizioni,
specialmente nella Fenicia e nell'Egitto. Sulle sponde del
Nilo soggiornò nell'antica capitale per qualche anno
conversando con i preti, della Città sacra di Menfi,
depositari della scienza di quel tempo; si istruì nei
misteri della loro religione, e si applicò particolarmente
alla geometria e all'astronomia. Egli fece dei grandi
progressi e nell'una e nell'altra scienza. In particolare la
dimostrazione di diverse proprietà dei trinagoli e gli è
anche attribuita l'introduzion nella tecnica nautica del
metodo per misurare le distanze dalla spiaggia di una nave
in alto mare. Noi sappiamo che sostenne all'inizio che la
Terra era un disco (i suoi studi furono poi ripresi dal
filosofo suo discepolo Anassimandro che formulò la prima
teoria sulla forma della Terra come un disco al centro
dell'universo). Interessanti anche le sue osservazioni
sull'ombra meridionale di una grande stele (obelisco)
piramidale.
Aggiunse all' astronomia delle ingegnose scoperte e fu il
primo a intuire a cosa erano dovute le eclisse solari e
lunari e con con qualche accuratezza a calcolarne la
periodicità e quindi la prevedibilità contribuendo a
renderle meno spaventose. Scoprì i solstizi e gli equinozi;
ripartì il cielo in cinque zone è fissò l'anno a 365 giorni,
divisione che raccomandò di osservare e che poi fu
universalmente adottata.
Ad eccezione dei sacerdoti di Menfi, dove più che sacerdoti
erano veri e propri scienziati, non si mise mai sotto alcun
maestro; egli non fu debitore che alle sue esperienze e alle
sue profonde meditazioni, delle belle cognizioni con le
quali ha arricchito la filosofia. Dotato dalla natura di uno
spirito elevato rifletteva molto e parlava assai poco. A
questa particolarità univa una dolcezza di animo, rimarcata
ancora da Giovenale con dei famosi versi.
TALETE terminati i suoi viaggi ritorno a Mileto eleggendo
una vita ritiratissima non volle mai ammogliarsi. Aveva
appena 23 anni quando la di lui madre lo sollecitò con
grande impegno ad accettare un partito assai vantaggioso che
si presentava. Ecco la risposta che Talete le diede: "Quando
si é giovine non hai tempo di maritarti; quando si é vecchio
é troppo tardi; e quando si è di media età non si deve aver
tempo sufficiente per poter pensare alla scelta di una
sposa.
Talete di tre cose soleva ringraziare gli Dei: di esser nato
ragionevole, anzichè bestia; uomo, anzichè donna; greco
anzichè barbaro.
L'opinione che egli aveva della Divinità era quella di una
intelligenza che non aveva avuto mai principio e che non
avrebbe mai fine. Un uomo gli domandò un giorno, se noi
possiamo nascondere le nostre azioni agli Dei: gli rispose
che perfino i nostri più intimi pensieri sono a loro noti.
Egli fu il primo fra i greci che insegnasse l'immortalità
dell'anima. Diceva che la cosa del mondo più grande è il
luogo, perchè contiene tutti gli esseri; che la più forte é
la necessità, perchè essa ci fa riuscire in ogni cosa; che
la più pronta é lo spirito; perchè in un istante percorre
tutto l'universo; che la più saggia è il tempo, poichè
scopre le cose le più oscure; ma che la più dolce e la più
amabile è di fare la propria volontà.
TALETE fra
le cose le più difficili egli reputava quella di conoscere
se stesso: egli fu l'inventore di quella bella massima
"Impara a conoscere te stesso". Che fu poi incisa su di una
lamella d'oro e consacrata nel tempio di Apollo. Non
ammetteva differenza tra la vita e la morte: gli fu allora
più volte domandato perchè non si faceva ammazzare, ed egli
sempre rispose "Perchè la vita e la morte essendo la stessa
cosa, nulla può determinarmi a prendere un partito piuttosto
che un altro".
In fisica non meno che in morale ebbe delle idee affatto
originali. Egli credette che l'acqua il primo principio di
ogni cosa; e perciò, secondo il suo sistema la Terra era
un'acqua condensata, e l'aria un'acqua rarefatta: ammetteva
che tutte le cose perpetuamente si cangiassero in altre, ma
che in ultima analisi si sciogliessero in acqua. Gli effetti
della calamita e dell'ambra gli fecero credere che tutto
fosse animato; anzi ammise che in tutto l'universo
esistevano degli esseri invisibili i quali ondeggiavano
nello spazio.
TALETE fu sempre tenuto in grande venerazione, per cui il di
lui parere era sempre ricercato su gli affari più
importanti. Creso dopo aver intrapresa la guerra contro i
Persiani, si avanzò alla testa di una forte armata fino al
fiume Alis, ma si trovò imbarazzato per passarlo perchè
mancanti di ponti e di battelli, ed il fiume non era guadoso.
Talete s'incontrò in quel momento e lo assicurò, ch'egli
avrebbe somministrato l'occorrente per far attraversare il
fiume alla sua armata: fece scavare un gran fosso in forma
di mezzaluna che incominciava da una delle estremità del
campo e terminava all'altra; il fiume si divise per questo
mezzo in due bracci, i quali essendo ambedue guadosi tutta
l'armata passò senza alcuna difficoltà.
"TALETE, essendo già molto vecchio, si fece portare un
giorno su di un terrazzo per godere lo spettacolo delle
giostre nell'anfiteatro. L'eccessivo calore del sole gli
cagionò un'alterazione così violenta che improvvisamente
morì nel luogo stesso all'età di 96 anni. Gli abitanti di
Mileto gli celebrarono degli splendidi funerali; e la sua
memoria fu sempre onorata non solo come quella di un gran
sapiente, ma come il fondatore della Scuola Jonica".
(Note: su questa antica opera, da dove abbiamo attinto
questi testi, l'età di Talete non è esatta. Non è nota la
data di nascita, ma oggi, l'eclisse solare di Sole, che lui
ha immortalato nei suoi studi (oggi tramite le simulazioni
al computer) sappiamo che sul luogo quindi su questa
coordinata (Menfi) il fenomeno si é verificata esattamente
il 28 maggio dell'anno 585 a.C.. Da altre sue fonti sappiamo
che durante il suo viaggio in Egitto era un uomo di circa
quarant'anni, ed essendo morto nel 546 a.C. non poteva avere
oltre 80 anni, e non 96 come afferma questo autore del '700)
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